Questa volta io e KIT – Knowledge Improving Tools parliamo della biodisponibilità, ovvero di quanto di quello che mangiamo arriva davvero a destinazione.
Alla fine ci sono anche dei consigli pratici. Buona lettura!
I nutrienti contenuti negli alimenti, siano aminoacidi, sali minerali, vitamine, acidi grassi e zuccheri, non sono quasi mai totalmente assorbiti dall’organismo, ma solo una certa percentuale del totale viene utilizzata per le sue attività e funzioni e tale percentuale viene definita “biodisponibile”.
Con il termine biodisponibilità si intende la proporzione di un nutriente presente in un determinato alimento che viene effettivamente assorbita ed utilizzata. Quando si parla in questi termini ci si può riferire ad un macronutriente, come zuccheri o amminoacidi, ma più spesso ad un micronutriente come vitamine o minerali, oppure al principio attivo di un farmaco.
La biodisponibilità dei macronutrienti, carboidrati, proteine, grassi, è di solito molto alta, fino ad oltre il 90% della quantità ingerita; d’altra parte i micronutrienti, cioè le vitamine e i minerali e i fitochimici bioattivi (es. flavonoidi, carotenoidi) possono variare addirittura dall’1% al 90% a seconda del modo in cui vengono assorbiti e utilizzati.
COSA INFLUENZA LA BIODISPONIBILITA’?
La biodisponibilità di certi nutrienti può essere influenzata da fattori che riguardano la molecola stessa oppure da fattori che riguardano l’organismo che ingerisce quell’alimento in quel momento.
Cosa influisce sulla biodisponibilità:
– l’elemento in questione, può trovarsi allo stato elementare o sotto forma di composto o di complesso più o meno stabile;
– la solubilità del nutriente in acqua, in alcool, nei lipidi, nel succo gastrico e nel succo intestinale ed eventualmente le dimensioni delle particelle;
– l’interazione del nutriente con altri componenti del pasto, e con i farmaci, per formare composti in cui ha un diverso grado di solubilità ad esempio;
– i processi di lavorazione dell’alimento come la fermentazione, la mondatura, la pelatura e la cottura.
I fattori che riguardano l’organismo che ingerisce quell’alimento, sono invece influenzati da sesso, età, eventuali anomalie genetiche, anomalie metaboliche, stato fisiologico e particolarmente quello nutrizionale, eventuali stati patologici, il microbiota intestinale, il pH del succo gastrico e di quello intestinale.
GLI ATTORI DELLA BIODISPONIBILITA’
I nutrienti possono interagire tra loro o con altri componenti della dieta che ne modificano la biodisponibilità in positivo o in negativo: abbiamo quindi promotori e inibitori.
L’azione principale dei promotori è quella di mantenere un nutriente solubile o proteggerlo dall’interazione con gli inibitori.
Per esempio, dato che i carotenoidi, un’importante famiglia di composti antiossidanti presenti principalmente nei frutti e nelle verdure arancioni, sono liposolubili, la loro biodisponibilità dipende dalla qualità e quantità dei lipidi presenti nella dieta, quindi i grassi presenti nel pasto fungeranno da veicoli di trasporto e stimoleranno la secrezione di bile, favorendone l’assorbimento.
Anche la vitamina C ci dà un grande aiuto essendo in grado di aumentare l’assorbimento del ferro di due o tre volte. Questo significa che condire della carne con il succo di limone o accompagnare una tazza di cereali con del succo d’arancia, ad esempio, aiuta l’organismo ad assorbire una maggiore quantità del ferro contenuto in quella carne e in quei cereali.
Inoltre, gli zuccheri (es. lattosio) e l’aumento del pH gastrico possono favorire la biodisponibilità del calcio e non solo.
D’altro canto gli inibitori possono invece ridurre la biodisponibilità dei nutrienti, creando agglomerati insolubili e quindi difficilmente digeribili, oppure andando ad interferire con il sistema di assorbimento stesso dei nutrienti.
Un esempio di competizione per il sistema di assorbimento è quello che si presenta mangiando il classico panino prosciutto e formaggio, ovvero l’interazione tra calcio e ferro. Entrambi i minerali si legano ad un trasportatore sulla superficie delle cellule intestinali assorbenti, ma mentre il ferro è in grado in questo modo di penetrare nelle cellule, il calcio si blocca all’ingresso e impedisce l’ulteriore assorbimento di ferro. Questo effetto è sicuramente da evitare per chi ha carenze di ferro. Quindi sarebbe meglio non associare nello stesso pasto carne e formaggio, ed evitare di assumere integratori di calcio e di ferro nello stesso momento della giornata.
L’effetto degli inibitori dell’assorbimento dei costituenti alimentari però, può essere anche utilizzato in modo vantaggioso, come avviene per i fitosteroli. Questi composti naturali sono estratti da certe piante e aggiunti in dosi elevate a vari altri cibi (per es. bevande vegetali arricchite) sfruttando così la loro capacità di ridurre l’assorbimento di colesterolo.
ESISTONO ANCHE GLI ANTINUTRIENTI
Le sostanze che peggiorano la normale biodisponibilità di alcuni nutrienti vengono dettiantinutrienti, ovvero molecole prodotte soprattutto da organismi vegetali a scopo difensivo contro infezioni ed infestazioni, ma presenti anche nel mondo animale come tossine.
Tra questi abbiamo l’acido fitico o fitati, che sono sostanze antiossidanti presenti nella crusca, nei cereali e nei legumi ed agiscono sequestrando alcuni minerali come il calcio, il ferro e lo zinco, formando complessi che risultano non disponibili per l’assorbimento. I modi per ridurre il contenuto di acido fitico degli alimenti è la fermentazione (ad es. una lievitazione estesa del pane integrale) o il lavaggio dei legumi e dei cereali con acqua acidificata con un po’ di limone.
Legumi e cereali contengono anche inibitori della proteasi che agisce disattivando la tripsina, enzima fondamentale per la digestione delle proteine. I processi di fermentazione e di cottura dopo l’ammollo sono in grado di eliminare questi effetti negativi.
Discorso simile si può fare per i tannini (polifenoli) altri composti antiossidanti presenti in molti
alimenti di origine vegetale tra cui ricordiamo il tè, il caffè, il cacao e anche il vino rosso. Tutti i cibi che contengono tannini e fitati hanno come importante effetto antinutriente quello di ridurre l’assorbimento del ferro vegetale.
Sempre riguardo agli alimenti di origine vegetale occorre anche citare l’acido ossalico, che con il calcio (ma anche con ferro e magnesio) forma un sale: l’ossalato di calcio. Si tratta di un cristallo insolubile che nelle vie urinarie tende a precipitare fino a formare fastidiosi calcoli e riducendo la biodisponibilità del calcio stesso.
Forse vi stupirà sapere che l’acido ossalico, è maggiormente presente nelle bietole e negli spinaci, nel cavolfiore e nel cacao, che possono essere considerati veri e propri “alimenti calcificanti”. Ovviamente la formazione di calcoli è favorita non solo dal consumo di elevate quantità di queste verdure ma dipende anche da altri fattori come la predisposizione, il rapporto calcio/forforo nella dieta e la tipologia di acqua bevuta.
Ci sono inoltre anche alimenti di origine animale che contengono antinutrienti, come ad esempio l’avidina, una glicoproteina presente nell’albume dell’uovo che, legando la biotina (vitamina H) presente in molti alimenti vegetali e animali, ne riduce la biodisponibilità. La cottura prima del consumo è però sufficiente per disattivare l’avidina.
Generalmente, nell’ambito di una dieta variata, gli antinutrienti non generano alcuno stato di carenza poiché sono presenti in piccole quantità negli alimenti. Il problema sorge però quando le scelte alimentari sono monotone e ricadono quasi esclusivamente sui cibi che contengono fattori antinutrizionali, in grado di produrre stati di carenza dannosi per la salute.
NON TUTTI I MALI VENGONO PER “CUOCERE”
Tutte le operazioni di preparazione e cottura degli alimenti possono provocare modifiche nella composizione dei nutrienti e come abbiamo visto, non tutte incidono negativamente sulla loro qualità.
Le proteine, ad esempio, tendono a denaturarsi, ovvero perdono la loro struttura globosa ed aggrovigliata, per assumere una forma più distesa, che le rende più facilmente digeribili. Ancora, alcune sostanze ad attività antiossidante, come il licopene, contenuto in particolare nei pomodori, con la cottura tendono a diventare maggiormente biodisponibili.
I principi nutritivi invece, più sensibili in assoluto alle operazioni di preparazione e cottura sono le vitamine, soprattutto quelle idrosolubili, ed in particolare quelle del gruppo B e C. La perdita di queste sostanze durante le normali operazioni di cottura, oppure con il riscaldamento di pietanze già cotte, è abbastanza consistente e si aggira intorno al 50% per la vitamina C, fino ad arrivare al 70% per i cosiddetti folati (vitamina B9).
Le vitamine liposolubili, come la A, la D, la E e la K sono invece più resistenti (la loro perdita si aggira intorno al 25%) così come i sali minerali che tendono, in minima parte, a disciogliersi nei liquidi di cottura; si passa dal 20% del calcio al 40% del rame passando, ad esempio, per il 25% del magnesio.
Tempo e temperatura rappresentano la cosiddetta “coppia vincente” quando si parla di cottura, nel bene e nel male. Se ben gestiti, infatti, ci permettono di ridurre al minimo le perdite di sostanze nutritive. Al contrario, tempi di cottura troppo lunghi e temperature troppo elevate non solo possono impoverire molto gli alimenti, ma addirittura, provocare la formazione di sostanze potenzialmente dannose.
Altri fattori importantissimi, da tener presente prima e dopo la cottura, sono l’esposizione all’aria ed alla luce. Basti pensare all’abitudine di tagliare le verdure in pezzi molto piccoli prima della cottura, che ne espone una superficie maggiore all’aria e quindi può aumentare la perdita di vitamine come la C; o, ancora, a quella di tagliare e preparare in largo anticipo le insalate, o tenere a temperatura ambiente e scoperte (quindi esposte alla luce e all’aria) le verdure già pronte per il consumo.
Accorgimento essenziale, dunque, quello di preparare le verdure, crude o cotte che siano, per quanto possibile immediatamente prima del loro consumo. Altro accorgimento importante è quello di evitare di utilizzare quantità eccessive di acqua per il lavaggio degli alimenti, anche in questo caso soprattutto delle verdure, o lasciarle in ammollo per troppo tempo. Anche questa pratica, infatti, può “lavare” via alcune vitamine, soprattutto la niacina (vitamina B3) e la tiamina (vitamina B1).
Rimanendo in tema di acqua, è utile ridurne al minimo indispensabile la quantità utilizzata per cuocere le verdure, ma anche la pasta ed il riso. Nel primo caso, infatti, ridurremo al massimo la perdita di vitamine e sali minerali nell’acqua di cottura (che può essere comunque riutilizzata per brodi e zuppe). Nel secondo, permetteremo a pasta e riso di assorbire la quasi totalità dell’acqua, evitando anche in questo caso di buttare via anche amidi, sali minerali e vitamine.
Infine, non dimentichiamo che anche la pelatura causa una ingente perdita di sostanze nutritive, ad esempio nella patata vi è un massimo di concentrazione di vitamina C nelle zone poste in prossimità della buccia; una pelatura eccessiva può quindi determinarne una perdita fino al 30-40%. Senza contare tutti gli ottimi nutrienti contenuti proprio all’interno della buccia, ad esempio il potassio.
Così anche nella carota, le cui zone periferiche sono ricche di vitamine del gruppo B e carotenoidi; nella lattuga e negli spinaci, le cui foglie esterne sono ad alto contenuto di carotene, vitamine del complesso B e vitamina C.
Per ovviare a questo problema basta cuocere le verdure con la buccia, quando possibile. Tale modalità permette la migrazione delle sostanze nutritive al loro interno e quindi ne comporta una perdita molto minore.
Concludendo possiamo dire, niente paura!
La giusta alternanza di alimenti crudi e cotti nell’ambito di un’alimentazione varia e la messa in pratica di questi piccoli accorgimenti, ci mette al riparo da carichi eccessivi di antinutrienti e al contempo ci garantisce assolutamente tutti i nutrienti di cui abbiamo bisogno, senza esporci al rischio di carenze e, soprattutto, senza comportare alcun bisogno di assumere integratori di vitamine e minerali.